Mi siedo, comincio a meditare e la mente sbuffa. Apro gli
occhi, guardo quanto tempo è passato. Riprendo. La mia mente si perde di nuovo
dietro qualche “film”. Riprendo. Mi viene in mente quello che devo fare dopo. Respiro
di nuovo. “Ma che sto facendo invece di meditare?”. “Possibile che non sia in
grado di metterci un po’ più di impegno?”. “Alla fine non mi
obbliga mica nessuno!”.
Certi giorni poi la mente trova una giustificazione per
saltare e mi viene in mente che neanche due mesi fa, mi alzavo con gioia e
motivazione dal letto per la mia piccola sadhana. Ma tutto è impermanente ed il
pensiero non sfugge di certo alla legge che regola il Tutto.
Darsi una disciplina da sempre buoni frutti: quella bertuccia
della mente altrimenti se ne va in giro a fare dispetti. Li fa alla mia anima,
li fa al mio cuore. Eppure anche in
questo marasma, che per alcuni è “sentirsi vivi” (mai sentito stupidaggine più
grande: meno siamo centrati e presenti a noi stessi e più siamo addormentati
nel sogno della vita!), mi capita di sentire il cuore che urla vendetta. È così
per esempio stamani mi sono alzata mezz’ora prima per leggere il Japji Sahib.
E mi viene spesso in mente la frase di Yogi Bhajan che ripeteva Shiv Charan
Singh (che per me è il primo vero Maestro che ho incontrato nell’ambito dello Yoga
Kundalini). Diceva sempre che qualsiasi cosa succeda, finché sei vivo, “you can
chant, you can breathe, you can move” (puoi cantare, puoi respirare, puoi
muoverti). E trovo che questa affermazione raccolga la quintessenza dello yoga Kundalini. Si cantano mantra, si respira consapevolmente e ci
si muove durante kriya e spesso anche nelle meditazioni.
E spero che porterò sempre con me questa tecnica che studio e continuo a sperimentare. Sarà per me talvolta rifugio, talvolta gioia, ma sempre, sempre, uno strumento per imparare a percepire la realtà per quella che è.
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